- parte 3 -
Non c’è due senza tre
e, se qualcuno vorrà ancora starmi dietro vorrei parlare di
fantascienza.
Una noticina personale
(non vogliatemene): venni in contatto con la fantascienza scendendo,
come è lecito attendersi in un racconto fantastico, in una vecchia
cantina dove i libri (erano per lo più edizioni Urania) erano
ammassati alla rinfusa. Era la fine degli anni’70 / primi ’80 e
oggi molti di quei romanzi, allora già un po’datati, sono vintage
in un modo delizioso e quasi struggente. C’era anche una raccolta
di racconti di Poe, un’altra legata alla serie “Alfred Hitchcock
presenta” ed una vecchia, muffosa edizione di “Dracula” (quei
tre libri, alla lunga, avrebbero influenzato il mio immaginario molto
più degli altri). Dell’horror, però, ho parlato sopra e adesso
tocca alla fantascienza.
FantaSCIENZA appunto,
senza la bacchetta magica delle fate.
Sappiamo tutti quando è
nata; alla fine dell’800, con l’illuminazione pubblica e il ballo
Excelsior.
Certo, anche prima (per
esempio l’isola volante di Laputa, di cui parla Jonathan Swift) è
possibile trovare elementi fantascientifici nelle opere di narrativa;
lo stesso Frankenstein può essere considerato un romanzo anche
di fantascienza, ma è – a mio parere – solo con
l’industrializzazione di massa delle società occidentali che il
genere acquista la fisionomia che gli è propria.
“Che cosa succederà
al mondo dopo che io non ci sarò più?” è la domanda che sta
dietro ad ogni racconto di fantascienza (come a molti altri,
ovviamente), ma, a mio giudizio, ciò che caratterizza la
fantascienza è utilizzare la scienza e la tecnologia per rispondere.
Siamo nell’era del
positivismo, del colonialismo e delle scoperte geografiche. Non a
caso Doyle, il papà di Sherlock Holmes, scrisse più di un racconto
di fantascienza anticipando per esempio, e non di poco, Micheal
Chrichton.
A me piace pensare che,
sin dall’inizio, il genere presenti la doppia faccia che da sempre
gli è propria.
Abbiamo infatti le utopie
– che denotano una fiducia pressoché illimitata nel progresso
dell’uomo – e le distopie – che invece vedono abbastanza nero.
Abbiamo Verne che ci
descrive in termini piuttosto trionfalistici la conquista della Luna
e degli abissi. Anche quando ci parla di eroi “maledetti”, come
Nemo (non il pesciolino, il capitano), la maledizione sta nel fatto
che questi uomini sono troppo avanti e che il mondo non è ancora
pronto per le nuove scoperte, non nell’intrinseca perniciosità
delle stesse; non viene mai messo in dubbio che il progresso della
scienza e della tecnologia sia – in sé e per sé –
fondamentalmente “buono”.
Accanto a lui, però,
abbiamo Wells che qualche dubbio se lo pone. L’isola del Dottor
Moreau non è esattamente l’Eden e, anche se nel frattempo ci
saranno millenni di progresso, già sappiamo che intorno all’anno
800.000 d.c. i nostri eredi non saranno gli apollinei Eloi (più o
meno bestie da macello), ma i dionisiaci, cannibali Morlock. Insomma:
non solo l’uomo non potrebbe usare bene il potere conferitogli
dalla scienza, ma la stessa scienza, forse, non è, sempre e
comunque, bene.
Facciamo un salto di
qualche anno e accenniamo ad Asimov. La ragione, la scienza
(positronica o psicostoria che sia) possono salvare gli uomini dalla
barbarie in cui periodicamente e necessariamente ricadono. Gli stessi
androidi, nelle mani di Dick, hanno tutt’altro ruolo e scopo, fino
a mettere in crisi, non attraverso una banale conquista, ma grazie
alla loro semplice, perturbante esistenza, il concetto di identità e
di umanità (dietro c’è, ancora una volta, il personaggio della
Shelley). Se facciamo un altro salto (mica abbiamo la macchina del
tempo per niente, no?) atterriamo sul pianeta Cyperpunk e non è un
bel vedere.
Ho diviso, molto
grossolanamente, tra utopie e distopie.
Adesso mi va di fare
un’altra divisione. Ci sono storie che si occupano soprattutto di
come funzionano le macchine ed altre che si occupano di come
funzionano gli uomini. Dico subito che non ho grande simpatia per le
prime. Se proprio ne avessi voglia (ahahaha) leggerei un libretto di
istruzioni di qualche aggeggio in vendita oggidì (non lo faccio mai,
appartengo alla scuola di quelli che immaginano grosso modo a che
cosa possa servire un tasto, lo schiacciano e vedono che cosa succede
e confesso che qualunque oggetto un po’ più complesso di un
telecomando mi mette in crisi) però stiamo parlando di fantascienza
e quindi è necessario che, dietro o sotto il racconto ci stia una
certa dose di verosimiglianza scientifica. Per questa ragione ho
qualche difficoltà a considerare per esempio “Cronache marziane”
un libro di fantascienza. Il grande Bradbury ci dice che le astronavi
vanno su Marte, punto e basta. Marte, poi, è spesso simile al natio
Illinois. Anche avendo le conoscenze degli anni ’50 è un po’
dura da credere… insomma, stiamo più dalle parti della fantasy, ma
in fondo chi se ne importa delle etichette? Un romanzo
fantascientifico, invece, è senza dubbio il grande, distopico
Fahrenheit 451, così come lo è Brave New World di Huxeley (e non
dimentichiamo “1984”). Sono libri insomma in cui si parla di una
possibile, scientificamente sostenibile scoperta o sviluppo
scientifico o tecnologico e si immagina che influsso potrebbe avere
quella novità sulla società e sull’individuo. Per me la
fantascienza è questo.
Bene, ora che vi ho
seccato abbastanza con questa carrellata assolutamente insufficiente
e non rappresentativa (tranne forse per il sottoscritto) vorrei farvi
una domanda (sperando di non disturbare chi si è già addormentato):
quale tra questi libri sentite più vicino al vostro modo di vedere
le cose?
Molto probabilmente, non
pochi di voi sentiranno più affini al proprio modo di sentire i
romanzi in cui viene descritta un’utopia negativa, che sia il mondo
distrutto dalla guerra nucleare, devastato dall’inquinamento,
oppresso dalla dittatura mediatica, disumanizzato dalla genetica e
dalla robotica.
Non è un caso e questa
disillusione nasce, a mio parere, da due ordini di motivi.
Tornate un attimo con me
in quella cantina.
Siamo alla fine degli
anni ’70, il muro di Berlino è bello saldo, i reduci del Vietnam
girano smarriti per le strade americane e coalizioni ondivaghe di
pluripartiti governano il Bel Paese (beh… da questo punto di vista
non è cambiato poi tanto).
Il duemila è il futuro,
gente; un’epoca ancora abbastanza lontana da poter credere che le
auto in quei giorni (giorni che noi vedremo) voleranno tra i
grattacieli anziché intasare le strade.
Tornate ai nostri giorni,
adesso e chiedetevi: tra venti, trent’anni scienza e tecnologia
renderanno il mondo migliore?
La risposta, come dicevo
sopra, è probabilmente no e credo che sia determinata da un fattore
anagrafico ed un fattore sociale.
Gli anni ti portano via i
sogni, le illusioni, le utopie, certo, ma anche, stando ad un livello
molto più terra terra, la capacità di padroneggiare la tecnologia.
Ho guardato degli
adolescenti e sono giunto alla conclusione che l’homo sapiens
stia sviluppando una nuova forma di pollice opponibile… perché
come altrimenti farebbero a smanettare sul cellulare con quella
velocità?.
Prendete un ragazzino e
dategli un computer (o un qualunque oggetto a medio / alta
tecnologia). Garantito che, in capo a pochi minuti, capirete che cosa
devono aver provato gl’indio quando hanno visto le prime armi da
fuoco.
La nostra è una società
tendenzialmente vecchia e, come tale, la massa della popolazione non
ha con la tecnologia quella dimestichezza che contraddistingue le
nuove generazioni, quindi, per il grande pubblico, l’appeal della
fantascienza svanisce. Non solo: di solito si teme ciò che non si
comprende. Di qui una certa tendenza a vedere nero.
Ma ancora non basta.
Vecchi o giovani che
siamo penso che, come società – e spesso a torto, c’è molto di
irrazionale in questo – oggi non crediamo più nella scienza e
nella tecnologia come strumenti per creare un futuro migliore.
Crediamo negli Ipad, nei social network e nei cellulari, ma non è la
stessa cosa. Non ardiamo più dal desiderio di andare a scovare gli
alieni in qualche angolo del cosmo (nemmeno per conquistarli), ma
aspettiamo che, magari nel 2012, arrivino per toglierci dai guai o al
massimo per far piazza pulita di tutto il caos che abbiamo combinato.
Il lettore contemporaneo
di fantascienza potrebbe dire “c’era una volta il futuro” e
dipinge, come per esorcizzarli, cupi scenari (ho già detto che
spesso la letteratura fantastica è una forma di esorcismo? Oh beh,
pazienza).
Credo che questa
considerazione valga per tutti i tipi di fantascienza, da quelli,
tradizionali, in cui compare e predomina il tema del viaggio, nel
tempo e nello spazio, a quelli in cui si descrive la nostra società
così come potrebbe risultare a seguito di una evoluzione (o
involuzione) scientifica o tecnologica: ingegneria genetica, scoperte
atomiche, scoperte dell’ambito della psicologia della
parapsicologia, delle scienze sociali. Credo che valga, altresì, per
i racconti ucronici, in cui si domanda “che cosa sarebbe successo
se…” (esempio più frequente: se i nazisti avessero vinto la
guerra), per quelli steampunk, cyberpunk, per la fantascienza
apocalittica o postapocalittica, fantapolitica ecc.
A questo punto, entrate
in una libreria, magari una di quelle grandi e fate una prova. I
romanzi di fantascienza sono pochini, forse ancor meno di quelli
dell’orrore. Tutti e due, assieme, non raggiungono la quantità dei
romanzi fantasy.
Insomma: anche la
fantascienza è un genere letterario appannato e la causa principale
è, a mio parere, la sfiducia nel domani.
A pensarci bene è una
considerazione estremamente triste, il punto finale di una parabola
cominciata dopo la seconda guerra mondiale quando a tutti è stato
chiaro che cosa la scienza poteva provocare.
Ormai non capiamo più il
progresso, non ce ne fidiamo più, abbiamo trascurato le grandi
teorie, le grandi scoperte, le grandi invenzioni e ci siamo rifugiati
nelle “apps” (all’inizio non sapevo se ero un povero scemo o se
la sintonia della TV aveva problemi, poi, dopo due giorni, ho capito
di cosa stava parlando la pubblicità).
La cosa più triste,
però, è che la colpa di tutto questo non è della scienza… ma non
divaghiamo.
Eppure di cose da
scoprire, da esplorare ce ne sarebbero. Infiniti universi ciascuno
dei quali, forse, infinito.
Noi però, più che di
razzi ad annichilazione, preferiamo, come grande pubblico, sentir
parlare di draghi, orchi ecc… ma questa è un’altra storia.
Quella della fantasy di
cui parlerò, magari, la prossima volta.
- continua... -
Roberto Rossi "Rubrus"