giovedì 18 giugno 2015

[Focus] - Quattro chiacchiere sulla letteratura fantastica di Roberto Rossi “Rubrus” - parte 2




- parte 2 -


Se qualcuno vorrà ancora seguire la nostra chiacchierata, stavo parlando (da utente della narrativa, per carità, solo da utente della narrativa) dei tre generi in cui per comodità divido la letteratura fantastica. Tre aree che si sovrappongono e s’intersecano, tre indicazioni di massima, più che cartelli a senso unico. Se volete, tracce di sentieri nella foresta della fantasia.

Dato che da qualche parte si deve cominciare, inizierei dall’horror che, (se devo fare il gioco della torre) è il mio preferito.

Definisco racconto dell’orrore o del terrore quello che mira a spaventare il lettore usando elementi narrativi fantastici.

La Radcliffe distingueva i racconti horror in due categorie: quelli che annichiliscono il lettore (e li chiamava racconti dell’orrore) e quelli nei quali fa capolino il meraviglioso (che chiamava racconti del terrore); spaventoso sì, ma pur sempre mix di wonder and terror (come diceva Leiber) o cosmic horror (come si esprimeva Lovecraft).

Anche se io userò i termini indifferentemente, questa distinzione, secondo me, è valida – anche se con tutti i se e i ma che si devono usare quando si maneggiano queste categorie.

Un racconto come “Il gatto nero” fa venire i brividi al lettore (a quasi duecento anni di distanza, ci riesce benissimo) e lì si ferma (anzi, in teoria l’opzione soprannaturale neppure sarebbe necessaria; l’io narrante ci dà una spiegazione razionale, per quanto bizzarra… ma nessuno gli crede, no?).

Un racconto come “La maschera di Innsmouth”, di Lovecraft, con le sue agghiaccianti descrizioni di mostruosità e mutazioni, si chiude con una frase che, in sé, racchiude l’essenza stessa del desiderio dell’Oltre, succeda quel che succeda.

Già, ma perché uno scrive e legge di questa roba?. Anzi, visto che stiamo facendo quattro chiacchiere, perché voi scrivete e leggete di questa roba?.

Vi dirò come la penso: parafrasando John Keating, il prof. de “L’attimo fuggente” (lui parlava di poesia, a dire il vero) noi non scriviamo e leggiamo racconti (anche racconti dell’orrore, sì) perché è carino. Noi scriviamo e leggiamo racconti horror perché siamo cibo per i vermi.

Sì discute da sempre se la rappresentazione di una realtà (e non solo narrativa) abbia funzione catartica o mimetica. In parole povere: uno che esce da un cinema dopo aver visto l’ultima prodezza di Rambo VI (uscirà, uscirà…) prova disgusto per la guerra oppure segretamente spera di poter prendere a mazzate il primo disgraziato che gli graffia il paraurti?.

La domanda non avrà mai risposta, per fortuna, né, meno che mai, una risposta univoca per tutti e valevole in tutte circostanze.

La spiegazione che mi sono dato io e che, secondo me, ha una passabile percentuale di veridicità, è che ogni buon racconto horror (e forse non solo) è una forma di esorcismo.

Il buon racconto horror ci mette di fronte ai nostri demoni e ci dice “e adesso cosa fai?”

Il demone ultimo – beh, che sarà l’ultimo ad essere sconfitto lo dice anche qualcun altro – è la Signora con la Falce e, in definitiva, si tratta di uno dei due, soli, veri, grandi temi della narrativa (l’altro è l’amore, per capirci).

Restringendo la visuale e/o abbassandola a un livello commerciale è facile notare come esistano decine di racconti dell’orrore per ogni forma di fobia. Abbiamo racconti, film e romanzi che parlano d’insetti, cani, ascensori, automobili, vicini di casa, specchi, uccelli, insegnanti, ecc. (si potrebbe continuare per ore).

Non solo.

In tantissimi racconti horror, soprattutto in quelli più risalenti, è presente il tema della Punizione.

Tanto per limitarmi a due esempi: quanti coniugi traditi tornano dalla tomba per vendicarsi del fedifrago, quante maledizioni colpiscono gl’incauti ladri?. E andate pure dai vostri vecchi (spero possiate farlo) e fatevi raccontare le favole che venivano narrate ancora solo agl’inizi del secolo scorso. Lo schema, magari sotterraneo, è spesso rappresentato dal binomio: trasgressione (anche minima) e punizione. Beh, se oggi sentiste qualcuno raccontare simili storie probabilmente chiamereste non solo il Telefono Azzurro, ma anche lo psicologo e i carabinieri.

Oggi simili racconti sono più rari, segno del mutare – senza dubbio alcuno – delle tecniche educative. A mio parere, però, ciò è anche il sintomo di una diversa percezione del Male (o del male) o, se volete leggerla in un’accezione religiosa, del Peccato, da parte della nostra società. Come si sa, infatti, la più grande astuzia del diavolo ecc.

Lo schema però spesso rimane, magari adattato ai tempi, mascherato, raffinato, ma rimane.

Oltre ad una funzione “educativa” (nel senso spiegato sopra) lo schema colpa – punizione è anche assolutorio.

Ad essere punito in modi raccapriccianti è il cattivo e, detto tra noi, non se la meritava, forse, una simile fine con tanti saluti ai diritti umani? Insomma, lui è il Cattivo e noi, automaticamente e necessariamente, i buoni. Nelle arene delle antichità venivano sbranati e sgozzati i condannati, noi oggi lo facciamo in effige, ma penso che il meccanismo psicologico sia ancora lo stesso.

Il racconto dell’orrore o del terrore però è un esorcismo, secondo me, in un senso più profondo e più ampio, che va ben oltre la funzione morale o assolutoria di cui ho detto sopra.

A un livello appena più profondo si scorge che, ad infliggere sofferenze è un mostro… noi… oh, noi non lo faremo mai, non è vero? Anzi, noi non saremo neppure capaci di pensarlo, meno che mai di scriverlo. Qualcun altro lo ha fatto al posto nostro, noi magari ci limitiamo a leggerlo, però è un peccato veniale. Del resto, per pensare e scrivere queste cose si deve essere un po’ matti e (ma diciamolo sottovoce) un po’ perversi. La diffidenza sociale verso chi legge horror, del resto, è superata solo dalla diffidenza verso chi scrive horror.

A un livello ancora più profondo, però, si può notare come simili angosce e nefandezze stiano lì, sulla carta (o sullo schermo del computer). Ci basta chiudere il libro per dominarle. Meglio ancora, ci basta andare all’ultima pagina per sapere come andrà a finire e rovinare così la suspence ed il climax che tanta importanza hanno nel racconto del terrore. Insomma: possiamo dominare i mostri. Possiamo imprigionarli non dietro sigilli, incantesimi e grotte tenebrose nelle profondità della terra, ma dietro lettere e parole e, una volta rinchiusi lì dentro, possiamo sconfiggerli con un semplice gesto della mano.

A questo punto vorrei chiedervi una cosa. Sì, proprio a voi che state leggendo. Avete visto come siano pochi i romanzi horror nelle librerie?

Ciò, a mio giudizio, dipende da due fattori intrinseci e da due fattori estrinseci che, come al solito, interagiscono.

Comincio da quelli intrinseci.

Il racconto horror non tollera, secondo me, due cose: la serialità e l’eccesso di fantastico.

Non tollera l’eccesso di fantastico perché scopo dell’horror è spaventare e, francamente, ci vuole del bello e del buono e, soprattutto, una bella dose d’immaginazione per aver timore di cose lontanissime dalla vita di tutti i giorni. Il Grande Cthulhu terrorizza le menti più sensibili (scrittori, poeti, musicisti, pittori), ma, per buona parte del racconto di Lovecraft, se ne sta rintanato nella morta R’lyeh, città da incubo dalle prospettive distorte sepolta al crocevia di più dimensioni. Se avesse passeggiato per New York avrebbe probabilmente incontrato King Kong o Godzilla ed avremmo avuto un racconto comico, o fantasy, o di fantascienza, non un racconto del terrore.

Il racconto horror, inoltre, non tollera la serialità perché ci si abitua a tutto. Questo è, per gli scrittori horror, un problema drammatico, ma non c’è tempo di analizzarlo. Mi limito a notare che il Conte Dracula appare all’inizio del romanzo, dove domina la scena, ma poi praticamente scompare, tranne in un’occasione o forse due (anche se abbiamo i brividi intuendo che cosa stia facendo nell’ombra che gli è madre)… mica se ne sta tutto il tempo sulla scena a palpeggiare fanciulle indecise se dargliela o no. Insomma: mettete un mostro in un libro e avrete forse un romanzo horror. Mettetene una dozzina e avrete la Casa delle Streghe al Luna Park. Non è la stessa cosa.

A questo punto vedrete come molti dei romanzi cosiddetti horror (a cominciare da quelli della sig.ra Meyer, ma, seppure migliori, potrei citare quelli della Hamilton) sovrabbondano in tutt’e due queste caratteristiche e quindi con l’horror vero e proprio hanno poco a che spartire.

Ci sono poi, secondo me, due cause estrinseche del declino del genere. Più precisamente, ragioni di marketing.

La prima è che la paura è spesso politicamente scorretta ed è come se gli editori fossero preoccupati di turbare la delicata psiche dei loro lettori con spauracchi immaginari (però legioni di serial killer se ne stanno acquattati nelle librerie… mah) oppure se temessero di essere accomunati a quella gentaglia poco raccomandabile che legge e scrive horror.

La seconda è che la narrativa moderna appare malata di gigantismo. Tomi e tomi di pagine e pagine che spesso ricordano i temini delle elementari (avete presente quando dovevate scrivere almeno quattro facciate protocollo e dopo due avevate finito il carburante?). La ragione è semplice: se un libro è “tanto” è anche giusto che costi tanto, no?

Salvo eccezioni, però, di solito lo scrittore horror non è un maratoneta, ma uno sprinter; al contrario di quello fantasy o di avventura, per esempio.

Dopo il boom degli anni ’80, insomma, secondo me il genere è in declino o in stasi.

Non mi preoccupo più di tanto, comunque.

I mostri, si sa, non muoiono mai.
- continua... -

Roberto Rossi "Rubrus"

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