giovedì 25 giugno 2015

[Focus] - Quattro chiacchiere sulla letteratura fantastica di Roberto Rossi “Rubrus” - parte 3


- parte 3 -

Non c’è due senza tre e, se qualcuno vorrà ancora starmi dietro vorrei parlare di fantascienza.
Una noticina personale (non vogliatemene): venni in contatto con la fantascienza scendendo, come è lecito attendersi in un racconto fantastico, in una vecchia cantina dove i libri (erano per lo più edizioni Urania) erano ammassati alla rinfusa. Era la fine degli anni’70 / primi ’80 e oggi molti di quei romanzi, allora già un po’datati, sono vintage in un modo delizioso e quasi struggente. C’era anche una raccolta di racconti di Poe, un’altra legata alla serie “Alfred Hitchcock presenta” ed una vecchia, muffosa edizione di “Dracula” (quei tre libri, alla lunga, avrebbero influenzato il mio immaginario molto più degli altri). Dell’horror, però, ho parlato sopra e adesso tocca alla fantascienza.
FantaSCIENZA appunto, senza la bacchetta magica delle fate.
Sappiamo tutti quando è nata; alla fine dell’800, con l’illuminazione pubblica e il ballo Excelsior.
Certo, anche prima (per esempio l’isola volante di Laputa, di cui parla Jonathan Swift) è possibile trovare elementi fantascientifici nelle opere di narrativa; lo stesso Frankenstein può essere considerato un romanzo anche di fantascienza, ma è – a mio parere – solo con l’industrializzazione di massa delle società occidentali che il genere acquista la fisionomia che gli è propria.
“Che cosa succederà al mondo dopo che io non ci sarò più?” è la domanda che sta dietro ad ogni racconto di fantascienza (come a molti altri, ovviamente), ma, a mio giudizio, ciò che caratterizza la fantascienza è utilizzare la scienza e la tecnologia per rispondere.
Siamo nell’era del positivismo, del colonialismo e delle scoperte geografiche. Non a caso Doyle, il papà di Sherlock Holmes, scrisse più di un racconto di fantascienza anticipando per esempio, e non di poco, Micheal Chrichton.
A me piace pensare che, sin dall’inizio, il genere presenti la doppia faccia che da sempre gli è propria.
Abbiamo infatti le utopie – che denotano una fiducia pressoché illimitata nel progresso dell’uomo – e le distopie – che invece vedono abbastanza nero.
Abbiamo Verne che ci descrive in termini piuttosto trionfalistici la conquista della Luna e degli abissi. Anche quando ci parla di eroi “maledetti”, come Nemo (non il pesciolino, il capitano), la maledizione sta nel fatto che questi uomini sono troppo avanti e che il mondo non è ancora pronto per le nuove scoperte, non nell’intrinseca perniciosità delle stesse; non viene mai messo in dubbio che il progresso della scienza e della tecnologia sia – in sé e per sé – fondamentalmente “buono”.
Accanto a lui, però, abbiamo Wells che qualche dubbio se lo pone. L’isola del Dottor Moreau non è esattamente l’Eden e, anche se nel frattempo ci saranno millenni di progresso, già sappiamo che intorno all’anno 800.000 d.c. i nostri eredi non saranno gli apollinei Eloi (più o meno bestie da macello), ma i dionisiaci, cannibali Morlock. Insomma: non solo l’uomo non potrebbe usare bene il potere conferitogli dalla scienza, ma la stessa scienza, forse, non è, sempre e comunque, bene.
Facciamo un salto di qualche anno e accenniamo ad Asimov. La ragione, la scienza (positronica o psicostoria che sia) possono salvare gli uomini dalla barbarie in cui periodicamente e necessariamente ricadono. Gli stessi androidi, nelle mani di Dick, hanno tutt’altro ruolo e scopo, fino a mettere in crisi, non attraverso una banale conquista, ma grazie alla loro semplice, perturbante esistenza, il concetto di identità e di umanità (dietro c’è, ancora una volta, il personaggio della Shelley). Se facciamo un altro salto (mica abbiamo la macchina del tempo per niente, no?) atterriamo sul pianeta Cyperpunk e non è un bel vedere.
Ho diviso, molto grossolanamente, tra utopie e distopie.
Adesso mi va di fare un’altra divisione. Ci sono storie che si occupano soprattutto di come funzionano le macchine ed altre che si occupano di come funzionano gli uomini. Dico subito che non ho grande simpatia per le prime. Se proprio ne avessi voglia (ahahaha) leggerei un libretto di istruzioni di qualche aggeggio in vendita oggidì (non lo faccio mai, appartengo alla scuola di quelli che immaginano grosso modo a che cosa possa servire un tasto, lo schiacciano e vedono che cosa succede e confesso che qualunque oggetto un po’ più complesso di un telecomando mi mette in crisi) però stiamo parlando di fantascienza e quindi è necessario che, dietro o sotto il racconto ci stia una certa dose di verosimiglianza scientifica. Per questa ragione ho qualche difficoltà a considerare per esempio “Cronache marziane” un libro di fantascienza. Il grande Bradbury ci dice che le astronavi vanno su Marte, punto e basta. Marte, poi, è spesso simile al natio Illinois. Anche avendo le conoscenze degli anni ’50 è un po’ dura da credere… insomma, stiamo più dalle parti della fantasy, ma in fondo chi se ne importa delle etichette? Un romanzo fantascientifico, invece, è senza dubbio il grande, distopico Fahrenheit 451, così come lo è Brave New World di Huxeley (e non dimentichiamo “1984”). Sono libri insomma in cui si parla di una possibile, scientificamente sostenibile scoperta o sviluppo scientifico o tecnologico e si immagina che influsso potrebbe avere quella novità sulla società e sull’individuo. Per me la fantascienza è questo.
Bene, ora che vi ho seccato abbastanza con questa carrellata assolutamente insufficiente e non rappresentativa (tranne forse per il sottoscritto) vorrei farvi una domanda (sperando di non disturbare chi si è già addormentato): quale tra questi libri sentite più vicino al vostro modo di vedere le cose?
Molto probabilmente, non pochi di voi sentiranno più affini al proprio modo di sentire i romanzi in cui viene descritta un’utopia negativa, che sia il mondo distrutto dalla guerra nucleare, devastato dall’inquinamento, oppresso dalla dittatura mediatica, disumanizzato dalla genetica e dalla robotica.
Non è un caso e questa disillusione nasce, a mio parere, da due ordini di motivi.
Tornate un attimo con me in quella cantina.
Siamo alla fine degli anni ’70, il muro di Berlino è bello saldo, i reduci del Vietnam girano smarriti per le strade americane e coalizioni ondivaghe di pluripartiti governano il Bel Paese (beh… da questo punto di vista non è cambiato poi tanto).
Il duemila è il futuro, gente; un’epoca ancora abbastanza lontana da poter credere che le auto in quei giorni (giorni che noi vedremo) voleranno tra i grattacieli anziché intasare le strade.
Tornate ai nostri giorni, adesso e chiedetevi: tra venti, trent’anni scienza e tecnologia renderanno il mondo migliore?
La risposta, come dicevo sopra, è probabilmente no e credo che sia determinata da un fattore anagrafico ed un fattore sociale.
Gli anni ti portano via i sogni, le illusioni, le utopie, certo, ma anche, stando ad un livello molto più terra terra, la capacità di padroneggiare la tecnologia.
Ho guardato degli adolescenti e sono giunto alla conclusione che l’homo sapiens stia sviluppando una nuova forma di pollice opponibile… perché come altrimenti farebbero a smanettare sul cellulare con quella velocità?.
Prendete un ragazzino e dategli un computer (o un qualunque oggetto a medio / alta tecnologia). Garantito che, in capo a pochi minuti, capirete che cosa devono aver provato gl’indio quando hanno visto le prime armi da fuoco.
La nostra è una società tendenzialmente vecchia e, come tale, la massa della popolazione non ha con la tecnologia quella dimestichezza che contraddistingue le nuove generazioni, quindi, per il grande pubblico, l’appeal della fantascienza svanisce. Non solo: di solito si teme ciò che non si comprende. Di qui una certa tendenza a vedere nero.
Ma ancora non basta.
Vecchi o giovani che siamo penso che, come società – e spesso a torto, c’è molto di irrazionale in questo – oggi non crediamo più nella scienza e nella tecnologia come strumenti per creare un futuro migliore. Crediamo negli Ipad, nei social network e nei cellulari, ma non è la stessa cosa. Non ardiamo più dal desiderio di andare a scovare gli alieni in qualche angolo del cosmo (nemmeno per conquistarli), ma aspettiamo che, magari nel 2012, arrivino per toglierci dai guai o al massimo per far piazza pulita di tutto il caos che abbiamo combinato.
Il lettore contemporaneo di fantascienza potrebbe dire “c’era una volta il futuro” e dipinge, come per esorcizzarli, cupi scenari (ho già detto che spesso la letteratura fantastica è una forma di esorcismo? Oh beh, pazienza).
Credo che questa considerazione valga per tutti i tipi di fantascienza, da quelli, tradizionali, in cui compare e predomina il tema del viaggio, nel tempo e nello spazio, a quelli in cui si descrive la nostra società così come potrebbe risultare a seguito di una evoluzione (o involuzione) scientifica o tecnologica: ingegneria genetica, scoperte atomiche, scoperte dell’ambito della psicologia della parapsicologia, delle scienze sociali. Credo che valga, altresì, per i racconti ucronici, in cui si domanda “che cosa sarebbe successo se…” (esempio più frequente: se i nazisti avessero vinto la guerra), per quelli steampunk, cyberpunk, per la fantascienza apocalittica o postapocalittica, fantapolitica ecc.
A questo punto, entrate in una libreria, magari una di quelle grandi e fate una prova. I romanzi di fantascienza sono pochini, forse ancor meno di quelli dell’orrore. Tutti e due, assieme, non raggiungono la quantità dei romanzi fantasy.
Insomma: anche la fantascienza è un genere letterario appannato e la causa principale è, a mio parere, la sfiducia nel domani.
A pensarci bene è una considerazione estremamente triste, il punto finale di una parabola cominciata dopo la seconda guerra mondiale quando a tutti è stato chiaro che cosa la scienza poteva provocare.
Ormai non capiamo più il progresso, non ce ne fidiamo più, abbiamo trascurato le grandi teorie, le grandi scoperte, le grandi invenzioni e ci siamo rifugiati nelle “apps” (all’inizio non sapevo se ero un povero scemo o se la sintonia della TV aveva problemi, poi, dopo due giorni, ho capito di cosa stava parlando la pubblicità).
La cosa più triste, però, è che la colpa di tutto questo non è della scienza… ma non divaghiamo.
Eppure di cose da scoprire, da esplorare ce ne sarebbero. Infiniti universi ciascuno dei quali, forse, infinito.
Noi però, più che di razzi ad annichilazione, preferiamo, come grande pubblico, sentir parlare di draghi, orchi ecc… ma questa è un’altra storia.
Quella della fantasy di cui parlerò, magari, la prossima volta.
- continua... -
Roberto Rossi "Rubrus"

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