giovedì 2 luglio 2015

[Focus] - Quattro chiacchiere sulla letteratura fantastica di Roberto Rossi “Rubrus” - parte 4

- parte 4 -

Magari i miei cinque lettori si aspettano che chiuda il discorso che avevo iniziato un po’ di tempo fa
circa la narrativa fantastica. Erano quattro chiacchiere e quattro, insomma, devono essere.
Beh, avevo detto che avrei parlato del genere fantasy – sempre da utente della narrativa, per carità, questo non è un “saggio” ma qualche elucubrazione di un fruitore del fantasy.
Per onestà intellettuale devo dire di essermi avvicinato tardi al genere e di averlo frequentato abbastanza poco.
Personalmente, definisco fantasy quel genere di narrativa fantastica in cui predominano, nella costruzione della trama, elementi tratti da mitologie esistenti o inventate di sana pianta dall’autore.
In effetti, il fantasy è, tra i tre generi in cui si può sommariamente dividere la letteratura fantastica (e, sia ben chiaro, senza essere troppo categorici: sono indicazioni di massima e devono essere, secondo me, funzionali alla comprensione, non viceversa) quello più avulso dalla realtà.
L’horror si svolge in ambientazioni realistiche e contemporanee – anzi, la sua forza spesso deriva proprio da questo.
La fantascienza esige e pretende verosimiglianza scientifica.
Il fantasy della inverosimiglianza, della improbabilità, invece, fa la sua bandiera. Mi pare estremamente improbabile (anche non mi sento di escluderlo del tutto) che ci sia da qualche parte un trono di Aquilonia, un’isola di Melnibonè o una città di nome Lankhmar o Ankh – Morpork. Del realismo il fantasy se ne infischia, anzi, utilizza il fascino dell’impossibile proprio come le sirene usavano il loro canto.
Non è forse un caso, però, che a questa conclamata inverosimiglianza faccia spesso da contrappeso un’estrema analiticità e minuzia nella descrizione di mondi fantastici. Guardate come sono accurate le piantine che accompagnano i libri fantasy e la precisione, quasi da antropologo, da storico o da entomologo, con cui si descrivono creature immaginarie.
Credo che ciò dipenda da due ragioni.
Il primo è, credo, un’insopprimibile esigenza di coerenza della realtà. I mondi fantasy che mi è capitato d’incontrare sono a volte molto diversi tra loro, ma quasi tutti hanno una struttura interna molto solida. Il lettore fantasy non ha nessuna difficoltà ad immaginarsi una lucertola volante che sputi fuoco, ma esige che quel fuoco bruci. Anzi, di più, alle volte sente il bisogno di specificare che quel fuoco è, in realtà, un veleno che s’infiamma al contatto con l’aria (come di draghi descritti da Moorcock) o che il nostro lucertolone non potrebbe volare (si suppone che la gravità del mondo fantastico in esame sia come la nostra, altrimenti dame e cavalieri ballonzolerebbero come astronauti), ma vola perché le forze del Caos che s’infiltrano dal multiverso gli forniscono l’energia necessaria.
Il secondo motivo, a mio parere, è più sottile e coinvolge, credo, l’essenza stessa della narrativa fantasy. All’inizio della nostra chiacchierata dicevo che, a mio giudizio, la narrativa fantastica si occupa spesso di assoluti: il Bene, il Male, la Vita, la Morte ecc. Reputo che, nel fantasy, questo emerga con particolare evidenza. L’esempio più noto è Tolkien. Sauron è il Male e non è (per interpretazione autentica dello stesso autore) Hitler in versione fantastica – casomai il buon vecchio Lucifero. Il Male dev’essere sconfitto e poche storie, senza gl’infingimenti e i tentennamenti della vita reale. In Brooks è più o meno la stessa storia, almeno per quello che ho letto. Questa nettezza di forme e contenuti si trova però (a mio parere) anche in autori assai diversi. R.E Howard col suo Conan si pone il dilemma barbarie / civiltà (e tutte le sue simpatie vanno alla prima). Il Cimmero affronta i problemi della vita (che hanno l’aspetto di mostri e/o regine sessualmente depravate) e li sbaraglia a mazzate (beh, coraggio, chi non ha mai sognato di farlo, almeno una volta?). Nella pessimistica saga di Elric, Moorcock rovescia gli stilemi del genere per dirci che (ed è esattamente il contrario di quello che sostiene Tolkien) alla fine è il Caos (leggasi pure entropia) a vincere e la fine coincide con la morte dell’universo… salvo poi ricominciare tutto nell’universo successivo. Nei romanzi di Leiber (un autore che preferisco come scrittore horror o SF, peraltro) compaiono, e senza maschera, gli archetipi della psicologia junghiana. Uno dei personaggi più riusciti del Mondo Disco creato da Pratchett è la Morte stessa, che agisce, filosofeggia e ci fa ridere allo stesso tempo.
Insomma: nel fantasy abbiamo a che fare con gli Assoluti, gl’Interrogativi Ultimi, i Grandi Temi senza le difficoltà cognitive, interpretative, applicative che incontriamo nella vita di tutti i giorni.
Ecco perché, accanto alla pressoché assoluta improbabilità, i migliori libri fantasy (almeno, quelli che io giudico tali) sono intrisi di qualcosa molto simile alla logica formale (Lewis Carrol insegnava matematica).
A differenza del mondo reale, il mondo fantasy ha un senso o, quantomeno la possibilità di un senso, caratteristica che, nel mondo reale, non sempre ci è dato rinvenire. Ecco perché i romanzi fantasy hanno una struttura coerente. Esprimono spesso il bisogno di un senso, di un significato che il lettore non fatica a cogliere subito sotto la superficie delle cose (duelli, battaglie ecc)
L’accusa che si muove al fantasy (e in generale alla letteratura fantastica) è di fomentare l’escapismo, la fuga dalla realtà. È un’accusa quasi sempre vera, ma che non si cura di una domanda fondamentale: fuga sì, ma per andare dove? Probabilmente in un mondo dove il bene vince e il male perde, un mondo molto vicino – se non proprio lo stesso – al Paese della Felicità dove, alla fine delle favole che ci raccontavano da bambini, vanno a vivere l’eroina ed il Principe Azzurro.
Credo che lo stesso discorso valga, anche se i termini della struttura sono invertiti, nei romanzi fantasy dove il meraviglioso irrompe nel quotidiano. Qui, a differenza degli altri, non siamo noi ad essere trasportati in un contesto fantastico, ma è il mondo fantastico ad essere – scopriamo – tutto intorno a noi. American Gods, di Gaiman, è un buon esempio. Stringi stringi, il tema è sempre quello: perché succedono le cose? Qual è il senso di questo o di quello – o, addirittura, di tutto?
Aggiungo che il fantasy è anche un buon banco di prova per verificare la fondatezza di un’ affermazione di King (il saggio – quello sì che è un saggio – è “Danse Macabre” Ed. Theoria): tutta la letteratura fantastica si basa sul concetto di potere (anche l’horror e la fantascienza); quella mediocre tratta di chi il potere ce l’ha e lo usa, quella di qualità superiore di chi il potere non ce l’ha, ma lo scopre oppure di chi lo perde, oppure di chi paga un prezzo salatissimo per averlo.
Ecco perché, a mio parere giustamente, le storie di sword and sorcery (alla Conan) sono di solito qualitativamente inferiori a quelle di epic fantasy (alla Tokien) … a proposito, alla faccia di chi ha in uggia le distinzioni, queste sono categorie descrittive usate dagli appassionati di fantasy e, francamente, sembrano eccessive anche a me – ma forse proprio appassionato di fantasy non sono.
Adesso facciamo il solito giro in libreria… sono tanti i romanzi fantasy, vero? Secondo me sono molti di più di quelli di fantascienza e dell’orrore ed è troppo facile liquidare il fenomeno come infantilismo editoriale e/o del lettore.
Io credo che le ragioni siano almeno due.
La prima è commerciale. Il Fantasy adora le saghe, i cicli interminabili. Il contrario di quel che succede, o dovrebbe succedere con l’horror che si sta “fantasyzzando” – i libri della Hamilton, con vampiri, zombi, stregoni inseriti nella nostra realtà e che convivono con gli umani sono un ottimo esempio (anche qui mi sono fermato ad un libro solo, però).
La seconda è legata da un lato al bisogno di senso ed alla crescente sfiducia nella tecnologia. Come dicevo quando palavo della fantascienza, ormai non capiamo più il progresso, non ce ne fidiamo più, abbiamo trascurato le grandi teorie, le grandi scoperte, le grandi invenzioni e ci siamo rifugiati nelle “apps” per il telefonino… ma non è la stessa cosa, vero?
Vado anche più in là.
Abbiamo ancora bisogno di credere che, dietro l’angolo, ci sia la possibilità di un domani migliore dell’oggi e, cadute molte certezze (scienza, politica, religione ecc.), rimane, magari senza che ce ne accorgiamo, la bacchetta delle fate. Letteralmente e letterariamente.
Chesterton sosteneva che, quando gli uomini smettono di credere in Dio cominciano a credere a qualunque cosa e non escludo che dietro il boom del genere da trent’anni a questa parte possa esserci anche questo fattore. Un fattore magari poco influente, probabilmente minimale, ma non mi sento di escluderlo del tutto.


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Beh, la chiacchierata è finita.
Vorrei “rubare” però il congedo ad uno dei miei scrittori preferiti, Stephen King e, più specificamente, da quello che, tra i suoi libri, è forse il mio preferito: “It”.
Parto dal presupposto che non sappiamo molto di quello che abbiamo intorno e neppure di quello che abbiamo dentro.
A parer mio – scusate se parlo di me, ho cercato di evitarlo, ma “Parliamo tanto di me” potrebbe essere anche lo slogan del blogger – sappiamo tutt’al più di non sapere.
Spesso ci vuole, per dire che qualcosa non esiste, la stessa dose di fede che serve per dire che qualcosa esiste.
Parlare di fede, in tutte le sue accezioni, è però eccessivo, soprattutto per una chiacchierata come questa, che limita il proprio oggetto alla narrativa fantastica.
Non mi sento di escludere che la vasta area dell’ignoto possa contenere Qualcosa. Senz’altro mi piace crederlo.
Non possiamo parlarne e forse, razionalmente, non dovremmo, dato che non sappiamo granché.
Ciò nondimeno osiamo raccontarne, senza rimanere bloccati nelle nostre piccolezze e miserie quotidiane. Ci scriviamo sopra, come se non bastasse, poesie racconti e romanzi.
Credo che sia una forma di magia, molto più potente di qualunque paletto di frassino, di qualunque motore ad annichilazione, di qualunque bacchetta delle fate.
E, come dice Stephen King, il romanzesco è la verità dentro la bugia.


Roberto Rossi "Rubrus"